giovedì 26 aprile 2012

Il naso di Cleopatra


                              IL NASO DI CLEOPATRA 
Navigando su internet ho trovato questo interessantissimo articolo: «Se Cleopatra avesse avuto un naso grosso e brutto, né Cesare né Marcantonio si sarebbero innamorati di lei e la storia dell’impero romano sarebbe stata completamente diversa». Questo è l’esempio classico della teoria sugli imprevisti o addirittura il caos della storia in un’èra come la nostra, che considera la Storia come una serie multipla e non progressiva degli zero e degli uno che fanno reagire le sinapsi della computer technology. Proprio come leali di una farfalla sopra la giungla dell’Amazzonia contribuiscono al raccogliersi delle tempeste sull’Atlantico meridionale, anche noi, qui e ora, siamo il risultato casuale di una miriade di “imprevisti”, esattamente come ci vuole una quantità praticamente incalcolabile di spermatozoi per fertilizzare i quattrocento milioni di ovuli prodotti ogni secondo dalle donne di tutto il mondo, determinando così un aumento di cinque nascite al secondo nella nostra popolazione, attualmente attorno ai sei miliardi di persone. La genetica ci umilia mostrando la nostra somiglianza con altre forme di vita; la Storia lo fa mostrandoci quanto casuali e fortuiti possano essere le nostre attuali culture o persino noi stessi, cioè i loro anelli di trasmissione. «Siamo fatti della stessa materia dei sogni, e la nostra piccola vita è avvolta nel sonno», come dice Amleto, meditando sulle infinite possibilità d’azione e non-azione: «Essere o non essere». Le stravaganze della teoria del caos ci impongono di dedicare la nostra attenzione a un insignificante arcipelago situato al largo della costa nord-occidentale del continente europeo, nella seconda metà del XVI secolo, se vogliamo davvero capire il carattere essenziale degli imperi inglese e americano e il loro continuo sviluppo di una pirateria allo stesso tempo progressista, ricca di princìpi e remunerativa. Analogamente, è nello stesso luogo che si devono cercare le origini di quell’illusoria speranza di ispirazione anglosassone che sono le Nazioni Unite, il cui nome riprende quello delle potenze che conquistarono l’Europa continentale negli anni 1943-45, e che si riunirono dapprima a Londra nella Methodist Central Hall di Westminster e, successivamente, a New York. L’accettazione su scala planetaria di una ridondante istituzione rappresentativa premoderna quale il Parlamento è stata possibile soltanto perché è diventata parte integrante della sovranità anglosassone, mentre nei nuovi e moderni Stato-nazione della Spagna, dell’Impero e della Francia, le Corti, la Dieta e gli Stati Generali scomparvero per lasciare il posto a un governo efficiente e centralizzato. In Inghilterra la monarchia si affidava alla propria stessa presenza, al consenso e alla collaborazione, esattamente come fa oggi la polizia non armata, dato che non esisteva un esercito o una marina permanente, e che l’amministrazione locale era affidata a giudici di pace non retribuiti, con il compito di mantenere la «pace della Regina», la quale, per estensione, era anche quella di questi dignitari locali. Nel parte seconda dell’Enrico IV, la visita di Sir John Falstaff al giudice Robert Shallow, grazie alla quale lo stesso Falstaff viene provvisto di uomini per l’invasione della Francia progettata da Enrico V, è un ritratto satirico ma accurato di Sir Thomas Lucy di Charlecote Park, località che si trovava poco lontano da Stratford-upon-Avon, città natale di Shakespeare. Fu per sfuggire alla pena comminatagli nel 1583 da questo giudice di pace dopo essere stato colto a cacciare di frodo i cervi nel parco, che il giovane William andò a Londra in 10cerca di fortuna. Con tipica continuità inglese, Charlecote Park e i discendenti tanto dei cervi quanto del giudice di pace, tra cui il mio amico Sir Edmund Fairfax Lucy, vivono ancora lì, nella casa ricostruita da Sir Thomas per ospitare a colazione la regina Elisabetta I nel 1572, in viaggio verso il grande palazzo del suo «dolce Robin», il conte di Leicester, situato nella vicina Kenilworth. La casa appartiene al National Trust,fondo senza scopo di lucro, decentralizzato, non governativo, con quattro milioni di soci e maggiore proprietario terriero in tutta l’Inghilterra. Shakespeare ci invita a parlare di un altro organismo decentralizzato e non regolamentato: la lingua inglese. Nel XVI secolo, da rozzo dialetto che nessun ambasciatore si sarebbe mai preoccupato di imparare, si trasformò nella magnificenza e nella grandezza senza regole della lingua di Shakespeare e della Versione Ufficiale della Bibbia, dando, per dirlo con le parole del poeta, «un posto e un nome» a ogni cosa. Tuttavia, l’esistenza della lingua inglese, per non parlare del suo predominio, non sarebbe potuta essere nemmeno immaginata se l’Inghilterra non fosse stata indipendente. Se Anna Bolena, madre di Elisabetta I, fosse morta nel 1528 per una malattia respiratoria (un’influenza sul tipo della SARS), come sembrava probabile, non ci sarebbe stato alcuno scisma con Roma, e, di conseguenza, alcuna rottura con le influenze del continente; né ci sarebbero stati una chiesa d’Inghilterra, un nuovo matrimonio reale e la nascita della nostra eroina, Elisabetta. Se Elisabetta fosse stata messa a morte dalla sorellastra, la regina Maria, come desiderava l’ambasciatore di suo marito Filippo II di Spagna, al trono sarebbe salita Maria Stuart, la regina cattolica di Scozia e di Francia, e l’Inghilterra, nonché l’America del Nord, per non parlare di un qualsiasi impero futuro, sarebbero state di lingua francese, cattoliche e parte di uno Stato assoluto centralizzato, per immaginarsi il quale non c’è bisogno delle raffinatezze e delle sofisticherie di Giscard d’Estaing. Se la regina vergine avesse accettato le 11avances e la proposta di matrimonio di suo cognato Filippo II di Spagna, o quella del suo «ranocchio», ossia il duca di Angoulême, o ancora dell’arciduca Carlo d’Asburgo, si sarebbero verificati analoghi drammatici cambiamenti nelle istituzioni e nella cultura dell’Europa e del mondo. Se avesse sposato l’amore della sua vita, il suo «dolce Robin», la gelosia avrebbe messo l’uno contro l’altro i suoi cinquanta nobili e una nuova guerra delle Due Rose avrebbe aperto le porte all’invasione straniera e all’assimilazione culturale e politica.
Shakespeare scrisse la commedia Sogno di una notte di mezz’estate anche per commemorare il matrimonio, nel 1594, dell’erede di Elisabetta, Giacomo VI di Scozia con la principessa Anna di Danimarca. Nella commedia, poiché Titania, la regina delle fate, si rifiuta di sposare il re degli elfi Oberon, il mondo naturale precipita nel caos. I raccolti non crescono, i vitelli nascono morti, e tutta la natura si rivolta per questo stato innaturale delle cose, simboleggiato dalle illusioni in stile «Bella e la bestia» di Titania, che si innamora di Chiappa, il rozzo tessitore con la testa d’asino, simbolo, a sua volta, del senso di sorpresa mattutina dopo un rapporto sessuale casuale e avventato. È il matrimonio del duca di Atene con la regina delle Amazzoni, così come quello delle due coppie che fuggono nella buia foresta allo scopo di sposarsi per amore, nonché quello tra Titania e Oberon, a rimettere a posto il mondo. Puck, lo spirito burlone, usando la magia per far mutare improvvisamente le passioni delle giovani coppie, sottolinea come l’amore e l’attrazione sessuale siano opera della stregoneria e della magia, così come il matrimonio per amore è una fonte di discordia nella duratura e più ampia istituzione della famiglia e, per estensione, dello Stato, mentre l’amore è per sua stessa natura maliardo e passeggero. Non è la sola volta che Shakespeare fa commenti sulle vicende a lui contemporanee, visto che tutti, dalla personalità più importante del paese, al Consiglio di Sua Maestà, al Parlamento, alla chiesa e al popolo comune, 12ritenevano innaturale che una donna governasse, per non parlare del fatto di rifiutare il matrimonio e di adempiere alla sua funzione riproduttiva, che significava garantire la stabilità politica e offrire la divina benedizione di un erede. Aprendosi con tre vecchie streghe che preparano una pozione e pronunciano maledizioni, il Macbeth insiste su questo tema della donna straordinariamente potente che sfida e umilia gli uomini per mezzo della figura di Lady Macbeth «con indosso i pantaloni». «Uomo senza volontà, dammi la spada», dice con scherno all’indeciso Macbeth. Il sangue che trova e che non può lavare via sarebbe stato riconosciuto dal pubblico tanto come sangue mestruale, quanto come sangue di un delitto.
Per di più, è una caratteristica della Dodicesima notte, quando il Signore dell’Inganno esercita il dominio nel periodo tra Natale e l’Epifania, il fatto che Shakespeare faccia interpretare a un attore maschio (alle donne non era permesso recitare in scena) il personaggio di Viola, una ragazza che fa finta di essere un ragazzo per difendere la propria virtù di nobildonna decaduta e senza un soldo, e che proprio a lei faccia fare la dichiarazione d’amore a Olivia per conto del Principe innamorato che lei stessa ama, ma al quale non può – in quanto ragazzo – rivelare il proprio amore. La commedia rompe le convenzioni persino per l’originario pubblico degli studenti di legge londinesi.

Nessun commento:

Posta un commento